Tecnologie del linguaggio e media condizionanti
Media e linguaggi che configurano nuovi modelli comunicativi e nuovi livelli interpretativi
Con l’obiettivo di trovare delle informazioni su un’ipotetica dottrina eretica, i protagonisti di Tlön, Uqbar, Orbis Tertius (J.L. Borges, 1940) riescono a mettere le mani su una particolare copia dell’Angle-American Cycloepedia, una ristampa letterale, ma anche prolissa, dell’Enciclopedia Britannica del 1902. L’esemplare di enciclopedia in questione presenta quattro pagine in più rispetto all’originale, nelle quali viene riportata la voce su Uqbar, non prevista dall’indicazione alfabetica. Le informazioni su Uqbar – apparentemente una regione medio-orientale – permettono ai protagonisti di avviare un’intensa ricerca che li conduce a sua volta alla scoperta di un testo intitolato A First Encyclopaedia of Tlön, Vol XI Hlaer to Jangr. A quanto pare, l’enciclopedia fa riferimento alla storia totale di un pianeta sconosciuto, il tutto articolato, coerente, senza un intento dottrinale o parodistico. Il testo fa emergere una particolarissima visione del mondo con specifico riferimento all’epistemologia e alla lingua di Tlön, la quale è dotata di soli verbi impersonali in sostituzione dei sostantivi. Non avendo nomi ai quali riferirsi per sviluppare proposizioni, non si può giungere ad alcun ragionamento deduttivo a priori. Se non c’è possibilità di osservare lo stesso oggetto in momenti diversi non c’è possibilità di alcun ragionamento induttivo a posteriori. Tutto ciò non ammette la presenza di un concetto di storia e di teleologia, procedendo in direzione di una mentalità vicina all’idealismo berkeleyano in cui però, non sarebbe presente la componente divina: nulla esisterebbe al di fuori della mente umana.
Il racconto termina in un postscriptum che descrive il graduale intensificarsi dell’influenza delle idee e della lingua dei tomi enciclopedici di Tlön sul mondo reale, che porta a una trasformazione radicale delle culture esistenti. Secondo le ipotesi del protagonista, il ritrovamento della Seconda Enciclopedia di Tlön, questa volta scritta in lingua originale e non tradotta, avrebbe ulteriormente accelerato il processo di trasformazione, arrivando alla fagocitazione dell’inglese, del francese e dello spagnolo.
Dal racconto si evince il particolare interesse di Borges per le strutture e per i sistemi di organizzazione di scrittura – prima ancora dell’apparato linguistico – che fanno derivare contenuti che non possono far altro che risultare estremamente alieni alle nostre menti, abituate a una serie di paradigmi di lettura e di analisi totalmente differenti. La vera protagonista del racconto, avente una quasi componente “demiurgica”, è la struttura dell’Encyclopaedia of Tlön. Nonostante quest’ultima esplichi visioni epistemologiche ai limiti dell’immaginabile, rimane incredibilmente comprensibile e leggibile dai protagonisti tanto quanto l’Angle-American Cycloepedia, che anzi, da un punto di vista di indicizzazione, si riscontrano notevoli somiglianze.
Lo stesso sociologo e filosofo canadese Marshall McLuhan, nel suo Gli strumenti del comunicare (1964), sottolineò come nel mito greco dell’alfabeto, Cadmo, fondatore e re della città di Tebe, introducendo la struttura alfabetica, «seminò i denti di un drago dai quali scaturirono uomini in arme».1 Proprio perché una struttura alfabetica e un supporto come quello del papiro, più leggero, meno costoso e meglio trasportabile, permise di intensificare il potere, l’autorità e il controllo a distanza delle formazioni militari, trasferendo gradualmente il potere dalla classe sacerdotale a quella militare.
Effettivamente ogni struttura linguistica abbonda di testimonianze sulla propria capacità di agguantare e divorare, dove l’alfabeto fonetico ne è un esempio in quanto tecnologia estremamente particolare, distaccata totalmente dalla scrittura pittografica e sillabica, che utilizza una struttura fonetica che permette a lettere semanticamente prive di significato di corrispondere a suoni semanticamente privi di significato.2 Leggere un testo, quindi, significa convertirlo sillaba dopo sillaba in suono3 portando a una scissione di segni e suoni dai loro significati “drammatici” e semantici. Nessun sistema di scrittura come quello fonetico era mai arrivato a compiere una simile impresa. Tale sistema alfabetico arriva così a catturare un altro aspetto della realtà: non più la realtà visiva, ma il suono della voce umana.4
Nella trascrizione fonetica viene cancellato tutto quel mondo di significato e di percezione presente invece nelle forme dei geroglifici e degli ideogrammi cinesi. Questi ultimi, ad esempio, restituendo un’intuizione totale dell’essere e della ragione, lasciano soltanto una minima parte alla sequenza visiva come segno di sforzo mentale e di organizzazione, quindi, non possono essere considerati un sistema di dissociazione analitica dei sensi e delle funzioni come invece lo è la scrittura fonetica. Sarebbe quindi, proprio perché l’alfabeto è in grado di estendere i modelli di uniformità visiva e di continuità che le culture risentirebbero particolarmente del proprio “messaggio”.5
È il mondo orale che per primo illumina la coscienza con una lingua articolata, che separa il soggetto dal predicato, mettendoli in rapporto e unendo gli esseri umani nella società. La scrittura invece introduce dissociazione interiore e alienazione ma in un certo senso anche una più salda unità, intensificando il senso dell’io e dell’individualità e conseguentemente alimentando un’interazione più consapevole fra gli individui. La scrittura, quindi, sotto un certo punto di vista, sviluppa la coscienza.6
Secondo filologi come Bruno Snell ed Eric Havelock, gli antichi greci scoprirono la concezione del sé nei secoli in cui la scrittura fu assorbita dalla loro cultura, ed effettivamente i popoli alfabetizzati giunsero a guardare le loro tecnologie dello scrivere come principale concretizzazione del pensiero dove l’utilizzo metaforico della scrittura sarebbe risultato una propria peculiarità fondamentale.7 L’apparato lessicografico è fondamentalmente un’aggiunta tardiva del linguaggio come tale e tutte le lingue in realtà hanno elaborato grammatiche senza aiuti da parte della scrittura o di una componente visiva del suono vocale. Nonostante ciò, senza la scrittura, come sottolinea in Oralità e scrittura (1982) l’antropologo e filosofo Walter Ong, la coscienza umana, probabilmente, non avrebbe potuto sfruttare a pieno le proprie potenzialità e sotto questo aspetto, l’oralità, avendo bisogno di produrre, è fondamentalmente destinata a produrre una scrittura, una struttura differente da quella preesistente e un apparato visivo in aggiunta alla componente uditiva.8
Da queste considerazioni ne deriva la necessaria tendenza umana allo sviluppo di ulteriori tecnologie comunicative e soprattutto di come tali tecnologie e le proprie strutture organizzative interne, siano di fondamentale importanza nel codeterminare contenuti nuovi e differenti, anche se – come ci mette in guardia lo studioso dei nuovi media Jay David Bolter – le tecnologie in questione non determinano da sole il nostro modo di pensare o di definire noi stessi; piuttosto, esse partecipano alla nostra continua definizione culturale del sé, della conoscenza e dell’esperienza.9
I primi esempi di concezione enciclopedistica si possono riscontrare nelle organizzazioni metodiche che risalgono alle opere di Aristotele, per poi gradualmente avvicinarsi alla nostra idea moderna di sistemazione delle nozioni di una o più discipline, già verificabile nelle Origines di Isidoro di Siviglia, nel VII secolo. Tale concezione – importante tra l’altro anche nel racconto di Borges – è un esempio di princìpi organizzatori determinati dalla relativa tecnologia dello scrivere, in cui la chiave di volta di tali opere sta proprio nelle proprie strutture, nei princìpi tramite i quali controllano gli altri componenti testuali. L’enciclopedia facilita il controllo dell’informazione e la reperibilità delle fonti originali. Nel tempo, le strutture organizzative enciclopediche sono variate partendo da associazioni per poi passare a strutture gerarchie via via più elaborate,10 proprio come accade nelle opere di Marziano Capella, Isidoro di Siviglia, Ugo di San Vittore e Vincent de Beauvais. Il punto interessante è che la forma di un simile codice, attraverso un sempre più tendente “accesso casuale”, permetteva al lettore di sviluppare un più elaborato schema del sapere. Ad esempio, il cambio di organizzazione gerarchica in favore di quella alfabetica, ammetteva che sistemi come quello delle sette arti liberali, non erano più in grado di abbracciare le conoscenze specialistiche della fisica, dell’anatomia, della geografia e della matematica. Le enciclopedie dal XVII secolo in poi, hanno scelto un dato strumento di riorganizzazione come la forma alfabetica proprio per privilegiare l’accesso all’informazione sfruttando a pieno quello che noi, ad oggi, diamo totalmente per scontato come le risorse delle tecniche di stampa (sommari, indici, note a margine, stile di carattere, ecc.)11 Nell’età della stampa, il libro e in particolar modo l’enciclopedia sono stati apprezzati per la loro capacità di conservare e mostrare strutture stabili, essendo un rispecchiamento tecnologico della visione del mondo dell’epoca, in cui ogni aspetto della natura trovava posto in una raffinata ma immutabile gerarchia. Il sommario, ad esempio, è insieme gerarchico e lineare: mostra la subordinazione e la sovraordinazione ma anche l’ordine in cui il lettore incontrerà gli argomenti trattati dalla prima all’ultima pagina.
Tale concezione di strutturazione, non è altro che una derivazione di un’altra metodologia di organizzazione, ovvero la scrittura, la quale permise di rallentare il ritmo incalzante della lingua parlata e di assumere il controllo della velocità alla quale produciamo e riceviamo le parole. La scrittura diviene un modello di strutturazione, di classificazione, di sviluppo e aggiornamento di tipologie, fondamentalmente uno strumento per la classificazione in categorie del mondo intero. Pensiamo a come il filosofo cinquecentesco Pietro Ramo, ha fornito i paradigmi di questa visione, iniziando a suddividere in fredde definizioni e classificazioni per diramarsi in ulteriori definizioni e classificazioni, finché ogni minima particella dell’argomento non era stata dissezionata e sistemata in ordine. Sono nati così manuali di quasi qualsiasi ambito esistente allora, come logica, dialettica, retorica, grammatica, aritmetica, ecc. Secondo i ramisti, tutto diventa autoevidente se definito e classificato in modo corretto e ciò ha portato una totale separazione delle discipline dalle altre, chiudendosi in totale autonomia. Sarebbe esattamente questo senso di “chiusura” – secondo McLuhan – ciò che ha permesso lo sviluppo della stampa.12 Ad esempio, i “linguaggi cartesiani” della matematica, della logica simbolica e della programmazione sono principalmente scritti e tutti tendono ad essere classificati in maniera estremamente rigorosa. Nello studio della programmazione informatica, quello che si deve apprendere inizialmente è proprio l’arte di analizzare un problema nei termini delle categorie operative fornite dal linguaggio in questione. Tale approccio prevede che il programmatore escogiti uno schema di rappresentazione finito suddividendo il problema in unità più piccole connesse tra loro.
La metodologia di organizzazione, strutturazione, analisi, classificazione e la stessa concezione occidentale della scrittura, hanno alterato effettivamente la nostra capacità di ragionamento. Come la scrittura ha favorito lo sviluppo di certe capacità a spese di altre,13 «l’invenzione dei caratteri a stampa creò il pensiero lineare o sequenziale».14
Come esseri “tipografici”, immersi nella cultura della stampa, siamo fondamentalmente minati dai nostri pregiudizi che prevedono il potenziamento della vista a discapito degli altri sensi e che conseguentemente ci fanno percepire come naturali forme del pensiero e modalità comunicative che in realtà sono prodotti storici.15 Proprio perché per l’alfabeta tipograficizzato è inconcepibile non vedere causa ed effetto in sequenza, vengono sviluppati tali pregiudizi che portano a concepire, ad esempio, società non alfabete come prigioniere di una visione di un mondo senza giunture intriso di superstizione, proprio per via della loro attenzione che tendenzialmente si pone più su cause interne che esterne.16
A favore di tale tesi, McLuhan ha portato come esempio una documentazione audiovisiva di alcuni studi antropologici sulle popolazioni melanesiane, in cui si poteva osservare un intagliatore lavorare con estrema maestria e coordinazione a un tamburo decorato. Quando però gli antropologi chiesero alla tribù di costruire delle casse nelle quali spedire gli intagli, gli indigeni si sforzarono senza successo nel tentativo di intersecare assi ad angolo retto per poi alla fine rinunciare. In un mondo così poco tipograficizzato, ogni oggetto si crea il proprio spazio e non esiste uno spazio razionale e comune nel quale esso debba inserirsi. Man mano che si intensifica l’impressione retinale, gli oggetti cessano di aderire a un loro proprio spazio per essere contenuti in uno spazio continuo, uniforme e soprattutto razionale. Per essere testimoni della dissoluzione di uno spazio uniforme dovremo aspettare il 1905, con la teoria della relatività, che sentenziò la condanna di uno spazio razionale, aprendo così la strada a visioni come quelle di Picasso.17
Soltanto le culture alfabetiche sono state così immerse in sequenze lineari coerenti da permeare le proprie organizzazioni psichiche e sociali, così da poter frantumare ogni sorta di esperienza in unità uniformi al fine di produrre dei mutamenti più rapidi. La costruzione delle società occidentali sull’alfabetismo ha portato al trattamento della cultura mediante il senso visivo esteso nel tempo e nello spazio dell’alfabeto. Mentre in culture non alfabete l’esperienza è organizzata da una vita sensoriale prevalemente uditiva portando a una concezione più onnicomprensiva che fredda e neutrale.18 In società dove non si conosce il conteggio e serie di numeri, si riscontra, come sottolinea il matematico Tobias Dantzig, un forte senso di parità o senso cinestetico molto più forte di una certa sensibilità quantitativa. Alcune popolazioni africane e australiane non hanno il concetto del numero che va oltre il sei ed è dunque difficile che si accorgano quando da una fila di oggetti ne vengano tolti due, ma capiscono subito quando ne manca “uno”.19 Per giungere alla concezione della matematica, i numeri hanno dovuto acquisire delle caratteristiche di corrispondenza e successione, ovvero i princìpi che permeano tutti i regni del pensiero esatto e che hanno portato come risultato un’astrazione visiva dall’operazione della manipolazione tattile. Tale concezione lineare della matematica incontrandosi con il nuovo spazio visivo rinascimentale ha portato ad una ulteriore importante innovazione in cui il punto di fuga e il concetto d’infinito sono diventati i protagonisti. Due nostre estensioni fisiche, così, hanno interagito reciprocamente generando un ulteriore equilibrio: la tecnologia della stampa ha trasformato lo zero medievale nell’infinito rinascinamentale proponendo per la prima volta nella storia la nozione di riproducibilità e dando agli uomini quell’idea di ripetizione illimitata che era indispensabile per il concetto matematico di infinito.20
Le tecnologie da noi utilizzate impongono un forte ascendente trasformativo sulla nostra concezione del mondo, derivando un conseguente sviluppo di ulteriori equilibri. Ad esempio, secondo Ong, senza la scrittura, la mente alfabetizzata non penserebbe e non potrebbe pensare come fa perfino quando compone i pensieri in forma orale. Una tecnologia come la scrittura arriva così ad essere determinante nella modificazione della consapevolezza umana. Secondo questa visione, la scrittura avrebbe facilitato la scoperta delle relazioni logiche, in cui, ad esempio, il ragionamento sillogistico, sarebbe stato destinato a rimanere estraneo a una cultura senza scrittura. Tale ipotesi però, non è stata del tutto accettata da studiosi come Brian Street, Silvia Scribner e Michael Cole, replicando che la scrittura da sola non sarebbe potuta essere sufficiente a una trasformazione così profonda del pensiero; piuttosto, l’unione dell’influenza della scrittura, di culture diverse e diversi momenti storici avrebbero determinato un uso specifico di tali tecnologie, in cui, ad esempio, le culture occidentali avrebbero avuto la tendenza grazie alla codipendenza dei suddetti fattori, all’aumentare lo status del discorso e del pensiero astratto e tecnico.21 Nonostante ciò, per Ong, la scrittura rimane una rappresentazione e una potente estensione del naturale processo del pensiero ed è per definizione una tecnologia trasformativa. Quindi, la definizione “tecnologia”, per quanto riguarda la scrittura, è estremamente puntuale, in quanto richiede l’uso di una serie di strumenti come penne stilografiche o tastiere e superfici predisposte. Ci risulta però difficile vedere la scrittura come tecnologia proprio perché l’abbiamo profondamente interiorizzata, esattamente come le regole grammaticali, delle quali se ne potrebbero in continuazione stabilire di nuove, senza essere assolutamente in grado di dire cosa esse effettivamente siano.22 Essendo interiorizzata così profondamente, inoltre, non riusciamo a percepire le proprie implicazioni tecnologiche, esattamente come accade per l’alfabeto che il bambino riesce ad assorbire in modo assolutamente inconscio, senza conoscerne le regole interne.
Il medium riplasma e ristruttura i modi di comunicazione, costringendoci a riconsiderare e a rivalutare praticamente ogni pensiero, ogni azione e ogni istituzione che prima si davano per scontati. Le società, ad esempio, sono sempre state plasmate più dalla natura dei media attraverso i quali gli uomini comunicano che non dal contenuto della comunicazione.23 I nostri rapporti sensoriali cambiano immediatamente con ogni incontro con un’estensione frammentata del nostro essere. È il mezzo che è il messaggio proprio perché il mezzo crea un ambiente indelebile. Si tratta fondamentalmente di dover stabilire costantemente nuovi equilibri derivanti dalla ricezione di nuove estensioni di noi stessi in forma tecnologica, in cui per contemplarla, utilizzarla o percepirla, è necessario in primis riceverla. Significa accogliere nel nostro sistema nuove estensioni e subire uno spostamento di percezione ed è per questo che per poterle usare, come afferma McLuhan, dobbiamo divenire il loro organo sessuale, in cui possiamo permettere al mondo della tecnologia il processo fecondativo evolvendosi così in nuove forme.24 Tutti i media sono fondamentalmente metafore (la parola metafora deriva dal greco metaphérein e significa trasportare), o meglio, metafore attive in quanto hanno il potere di tradurre l’esperienza in forme nuove, non si tratta quindi di semplici intermediari o mezzi come potrebbe far credere il termine “media” ma piuttosto una forma di trasporto che porta, traduce e trasforma il mittente, il ricevente e il messaggio; traducendo in questo modo, non un linguaggio in un altro, ma l’esperienza in quanto tale:25 alcuni bambini con nevrosi, ad esempio, tendono a perdere i loro tratti nevrotici quando sono al telefono e certi balbuzienti perdono la loro balbuzie quando parlano in una lingua straniera.
La parola parlata è stata la prima tecnologia grazie alla quale l’uomo ha lasciato andare il suo mondo per afferrarlo in una maniera differente. Si fa riferimento così a complessi sistemi di metafore e simboli che traducono l’esperienza nei nostri sensi divenendo delle tecnologie della chiarezza, in cui, per quanto riguarda la parola parlata, ad esempio, si traduce in simboli vocali dell’immediata esperienza sensoriale che possono essere evocati e recuperati in qualsiasi istante.26 Si tratta quindi di un costante atto di traduzione in forme nuove, considerando per di più, che il contenuto interno di un medium rimanda sempre a un altro medium:
Poco prima che un aeroplano superi la barriera del suono, sulle sue ali si rendono visibili onde sonore. L’improvvisa visibilità del suono nell’atto stesso in cui finisce è un esempio appropriato del grande meccanismo naturale, che porta a rivelare forme nuove e opposte proprio quando le forme precedenti arrivano alla loro massima attuazione.27
In ogni medium o struttura esiste “un limite di rottura” nel quale il sistema si trasforma in un altro o arriva a un punto di non ritorno. Nel mondo antico, come sottolinea McLuhan, la consapevolezza dei limiti di rottura come punti di non ritorno si manifestava nell’idea di hybris. Per i greci, la pena di una violazione consisteva in una generale perdita di consapevolezza del campo totale.
Nessun media esiste o ha significanza da solo, ma soltanto in un continuo rapporto con altri media28 in cui quando agiscono l’uno sull’altro, istituiscono nuovi rapporti, non soltanto tra i nostri sensi ma tra di loro.29 Il messaggio di un medium è proprio nel mutamento di proporzioni o di schemi che introduce. I contenuti infatti, sono le utilizzazioni di tali media che non hanno però alcuna influenza sulle forme dell’associazione umana, al contrario del medium che controlla e plasma tali associazioni.30 Veniamo costantemente estesi tramite nuove forme, il nostro sistema nervoso centrale viene scoperto e la nostra finalità è quella di intorpidirlo in un certo senso avviando un atto di cannibalismo, dove l’ambiente precedente con tutti i suoi valori privati e sociali, viene inghiottito dal nuovo ambiente e rielaborato per qualunque valore sia digeribile. La detribalizzazione attraverso l’alfabeto dell’uomo non alfabeta, ad esempio, ha portato delle conseguenze traumatiche sulla mente di queste popolazioni. Esattamente come è stato intorpidito l’uomo non alfabeta quando è stato coinvolto dalla cultura alfabeta, anche l’uomo occidentale si è ritrovato spiazzato, impreparato dinanzi alla tecnologia elettrica.31 L’era dei media elettrici è di conseguenza anche l’era dell’angoscia, dell’inconscio e dell’apatia. L’esistenzialismo infatti, offre una filosofia di strutture piuttosto che di categorie e mette l’accento più su un totale coinvolgimento sociale rispetto allo spirito borghese individualista. Tutto ciò, oltre a generare nuovi equilibri nell’individuo, ne crea di ulteriori, anche, e forse soprattutto, nella società: pensiamo a come la tecnologia dello scrivere non consistesse semplicemente nell’inchiostro o nei procedimenti per realizzare libri in forma di rotolo, ma anche nelle prassi politiche e sociali dell’antica retorica. E in modo affine, la tipografia non include solo le tecniche di stampa ma anche le pratiche scientifiche e burocratiche e le conseguenze socioeconomiche dell’età della stampa.32 Quando l’antropologa Margaret Mead portò in un’isola del Pacifico più copie dello stesso libro, si venne a generare un grosso stupore in quanto gli indigeni davano per scontato che ogni libro fosse di per sé unico.33 Ciò ci aiuta a comprendere come non dare per scontato una tecnologia che ad oggi sembra così ovvia come la stampa, ma anzi ci fa capire l’enorme trasformazione dal punto di vista concettuale che ha portato nella società. L’estensione del carattere fissile e uniforme ha contribuito a un significativo aumento del senso di uniformità e ripetibilità tipico della pagina stampata che ha rappresentato la pressione necessaria per giungere a un’ortografia e a una sintassi “corrette”. Tutto ciò ha portato inoltre una tendenza alla separazione tra poesia e canto scoprendo che era possibile leggere i versi senza udirli, e a una divisione tra linguaggio del popolo e quello delle persone istruite. La stampa ha sfidato le strutture dell’organizzazione medievale quanto l’elettricità lo ha fatto con il nostro individualismo. Come conseguenza sociale della stampa è derivato un contesto in cui era possibile parlare al mondo intero, come era possibile analizzare qualsiasi cosa del mondo tramite i libri grazie alla loro accessibilità, ma si presentò anche un intensificarsi dei concetti di potere e aggressività associabili ai nazionalismi,34 ai programmi industriali e militari occidentali.35 Tutto ciò infatti è in parte una derivazione concettuale dell’alfabeto tipograficizzato che trascina con sé i concetti relativi alla tecnica di trasformazione e di controllo atta a rendere uniformi e continue qualsiasi tipo di contesto e situazione. Sotto questo punto di vista, la società, può iniziare ad apparire come una ripetizione di certe norme linguistiche. Ripensiamo a come l’alfabeto fonetico abbia dato all’uomo un occhio in cambio di un orecchio e di come ci sia stata in base a ciò, un esplosione della struttura sociale. Per Bolter, vi è una relazione profonda fra le tecniche e le tecnologie di comunicazione e il modo in cui vediamo noi stessi e il mondo. Vivere nel mondo della scrittura o in quello dell’oralità significa non soltanto usare strumenti diversi, ma più profondamente essere diversi, pensare e agire in modo differente, anche se – lungi da noi adottare una condotta di determinismo tecnologico – c’è da sottolineare che le tecnologie nascono “parlate” da una cultura e non viceversa.36 Riteniamo che tali tecnologie abbiano la capacità di influire sulle forze sociali e culturali ma a loro volta ne subiscono l’influsso, dato che non agiscono sulla cultura come forze esterne ma rientrano pienamente nella dinamica culturale. La tecnologia quindi non determina la direzione in cui si muovono cultura e società perché non è un agente esterno rispetto ad essi ma è possibile comprendere la tecnologia in quanto agente di cambiamento senza pretendere che operi in modo autonomo rispetto ad altri campi della cultura. Individui e culture forgiano tecniche e dispositivi per i loro scopi, ma a loro volta le proprietà materiali delle tecniche e dei dispositivi limitano i loro possibili impieghi.37 Lo stesso Ong non ha mai presupposto una consequenzialità lineare e meccanica tra certe invenzioni tecniche e determinati mutamenti culturali, avvertendo invece la lentezza delle conseguenze, l’inquinarsi e il confondersi dei rapporti causali, la presenza di concause e gli effetti di feedback.38
- M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 2015, p. 92 ↩︎
- Cfr. Ibid. ↩︎
- Cfr. W. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna, 1986, p. 26 ↩︎
- Cfr. J.D. Bolter, Lo spazio dello scrivere, Vita e Pensiero Editrice, Milano, 2002, p. 86 ↩︎
- Cfr. M. McLuhan, op. cit., p. 93 ↩︎
- Cfr. W. Ong, op. cit., p. 245 ↩︎
- Cfr. J.D. Bolter, op. cit., p. 249 ↩︎
- Cfr. W. Ong, op. cit., p. 34 ↩︎
- Cfr. J.D. Bolter, op. cit., p. 249 ↩︎
- Ivi, p. 115 ↩︎
- Ivi, pp. 116-117 ↩︎
- Cfr. W. Ong, op. cit., pp. 189-190 ↩︎
- Cfr. J.D. Bolter, op. cit., pp. 253-254 ↩︎
- M. McLuhan, Q. Fiore, Il medium è il massaggio, Feltrinelli, Milano, 1981, p. 157 ↩︎
- Cfr. W. Ong, op. cit., p. 9 ↩︎
- Cfr. M. McLuhan, op.cit., p. 259 ↩︎
- Cfr. Ivi, pp. 156-157 ↩︎
- Cfr. Ivi, p. 94 ↩︎
- Cfr. Ivi, p. 113 ↩︎
- Cfr. Ivi, pp. 114-117 ↩︎
- Cfr. J.D. Bolter, op. cit., p. 252 ↩︎
- Cfr. W. Ong, op. cit., p. 123 ↩︎
- Cfr. M. McLuhan, Q. Fiore, op. cit., p. 8 ↩︎
- Cfr. M. McLuhan, op. cit., p. 60 ↩︎
- Cfr. Ivi, p. 9 ↩︎
- Cfr. Ivi, p. 71 ↩︎
- Ivi, p. 33 ↩︎
- Cfr. Ivi, p. 45 ↩︎
- Cfr. Ivi, p. 68 ↩︎
- Cfr. Ivi, p. 30 ↩︎
- Cfr. Ivi, p. 63 ↩︎
- Cfr. Ivi, p. 33 ↩︎
- Cfr., Ivi, p. 166 ↩︎
- Cfr. Ivi, pp. 167-169 ↩︎
- Cfr. Ivi, p. 94 ↩︎
- Cfr. J.D. Bolter, op. cit., p. 5 ↩︎
- Cfr. Ivi, p. 34 ↩︎
- Cfr. W. Ong, op. cit., p. 11 ↩︎